Condivido la riflessione di questo articolo che attraversa le note cantate delle ninne nanne di una volta, quelle che si sono tramandate da sempre e che sono resistenti al tempo, e spiega come esse siano in grado di trasportare emozioni e verità reali e profonde.
Ninna Nanna ninna Oh … OOPS cosa ho detto???
“Ninna nanna ninna oh, questo bimbo a chi lo do? lo darò all’ uomo nero che se lo tiene un mese intero, lo darò alla befana che se lo tiene una settimana, lo darò alla sua mamma che gli canta la ninna nanna”.
Quante volte ci siamo sentite cantare questa canzoncina e quante volte l’abbiamo cantata noi stessi … con le variazioni personali, con voce sottile magari stringendo il bimbo in braccio, coccolandolo per farlo addormentare.
Ma forse c’è tanta saggezza in queste parole, cantate sì con dolcezza, ma che rivelano nel profondo emozioni contrastanti sperimentate soprattutto nel momento della nanna, la sera, quando le energie e le risorse emotive sono più basse.
Questi sentimenti paurosi e incomunicabili carichi di tabù, di rabbia, di aggressività, di fatica e di desiderio di abbandonare il proprio figlio, sono sempre esistiti e sono tramandati attraverso una saggezza resistente al tempo e agli stereotipi sociali. Queste nenie hanno la capacità di mettere in parole “dicibili” e in un modo tollerabile queste emozioni faticose e dolorose. Quasi in un’auto protezione: “te lo dico ma non lo faccio”.
Quando l’emozione passa dalla parola, quindi dal “verbo”, dal pensato più o meno conscio, allora diventa un’esperienza più integrata che in parte può proteggere da quella rabbia e aggressività che sto sperimentando. Poter esprimere un contenuto di frustrazione anche forte attraverso una modalità cantata e narrata in modo dolce, può alleggerire del carico emotivo senza per forza far sentire sbagliati.
Il neonato che piange nel cuore della notte in un momento di grande stanchezza fisica e mentale può far sentire incapaci, tristi e frustrati. Alcune mamme e papà raccontano con grande vergogna ed imbarazzo il pensiero della paura di fare del male, di passare vicino alla finestra e di dirsi “ti butterei” … questo accade ma non per questo si è “malati”, le risorse che si attivano (aiuto del partner, ricorso al pediatra o allo psicologo, resilienza interna, …) ci proteggono e proteggono il bambino.
Proprio per questo, forse diventa importante ricordare il saggio modo delle nostre nonne che passano dalla “parola”, dalla canzone innocua per poter dire l’inesprimibile e dare uno spazio al desiderio di interrompere anche aggressivamente la fonte di impotenza e frustrazione che il pianto del bambino rappresenta. Comunicare ciò che sentiamo, attraverso una canzone, attraverso i ritrovi tra donne era un modo per dare un posto “sicuro” a vissuti normali che in questo modo venivano espressi ma anche contenuti. Questi vissuti oggi trovano meno spazio e a volte sono limitati a qualche incontro post partum, o sono descritti in libri in cui spesso si cercano risposte a quello che viene percepito come dissonante, “se ti amo perché mi arrabbio?”.
E allora continuiamo a “cantarle”, a dirle, a riconoscere la fatica e a non temere il giudizio altrui, perché sappiamo bene che chiunque ha avuto figli ha provato questi sentimenti.
Sentimenti che l’etica sociale non permette di esprime nella rappresentazione della madre come protettrice del focolare, nelle maternità e nelle paternità così preziose forse perché oggi meno vissute con il calo delle nascite e con lo spostamento dell’età in cui si hanno figlio. Questi aspetti possono sollecitare vissuti contrastanti come il doversi sentire per sempre riconoscenti di questo dono di cui vengono sottolineati solo gli aspetti irreali e illusori di perenne felicità e serenità e non permettono di lasciare spazio ai vissuti aggressivi e frustranti che vengono appunto repressi.
E se diventando genitori per la prima volta vi scoprirete a sperimentare anche rabbia, aggressività, tristezza e senso di incapacità è tutto normale, non etichettatevi come cattivo genitore o anormali, perché anche questi vissuti fanno parte della normalità di essere genitori, quindi…
raccontiamola, raccontiamocela anzi, cantiamola.